Il fenomeno estorsivo oggi: Occorre cambiare narrazione

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16 Febbraio 2022

Oggi è stata emessa la sentenza di primo grado del processo Alastra in cui sono stati condannati molti degli imputati accusati di associazione mafiosa, estorsione, lesione e stalking.

Nel processo alcuni operatori economici come i titolari di un ristorante di Finale di Pollina, erano costituiti parte civile con il supportato della nostra Associazione.
Questa sentenza scandisce la tappa di un percorso sociale duro e difficile che nel corso di questi anni ci ha visti impegnati nel territorio della provincia di Palermo (da Altofone a Corleone, da Monreale a San Giuseppe Jato, da Bagheria a Trabia passando per Termini Imerese e Cefalù), dove abbiamo supportato decine di commercianti e imprenditori che, dopo essersi liberati dalle estorsioni, continuano a operare sul territorio dove hanno sempre vissuto.

A fronte di un fenomeno non più capillarmente diffuso come venti anni fa, va tuttavia ribadito come ancora oggi ci sia chi continui a pagare le estorsioni e a non denunciare. Su questa tendenza riteniamo, tuttavia, debba essere riformulata la narrazione pubblico-mediatica che passa da un’analisi attenta dei profili di chi paga le estorsioni e non denuncia: c’è chi paga per paura ma soprattutto c’è chi lo fa per convenienza economica e contiguità culturale.
Emerge ormai a più riprese da indagini e processi una relazione di contiguità forte tra molti operatori economici, persone offese del reato di estorsione, e Cosa nostra; si tratta di commercianti e imprenditori che in cambio del pizzo pagato instaurano con la criminalità organizzata relazioni di convenienza e di scambio di favori. Ciò avviene, per esempio, in aree come Brancaccio in cui al di là dell’incessante opera di repressione di magistrati e forze dell’ordine e del lavoro di poche realtà sociali e scolastiche, il territorio è caratterizzato da una forte relazione di contiguità culturale ed economica tra vittime ed esattori.

C’è chi paga il pizzo e non denuncia perché si rivolge ai suoi stessi taglieggiatori per evitare che concorrenti aprano nel suo stesso rione; C’è chi paga le estorsioni e non denuncia perché è appartenente alla stessa organizzazione mafiosa; c’è chi paga e non denuncia perchè la messa a posto la corrisponde all’estorsore che è suo cugino o suo genero; c’è chi paga il pizzo e non denuncia perché si rivolge al suo stesso taglieggiatore per recuperare crediti presso terzi; c’è chi paga e non denuncia perché interpella i suoi aguzzini per “dirimere” vertenze con i propri dipendenti o risolvere problemi di vicinato.

Dinanzi a tali casi e in relazione a tali vicende è a nostro avviso fuorviante sostenere nel racconto pubblico che “nessuno denuncia”, senza, appunto, considerare la condotta e le ragioni di chi paga e resta reticente. Partendo proprio dalle caratteristiche di molti che pagano le estorsioni a Brancaccio e in altri territori bisognerebbe ridefinire il racconto pubblico mediatico sul fenomeno estorsivo e sulle persone offese.
Bisogna aggiornare la narrazione perché il fenomeno estorsivo, le sue dinamiche criminali e le vittime non hanno più le caratteristiche di diciotto anni fa.

Bisogna rilanciare un racconto diverso da quello di questi anni, spesso caratterizzato dall’alternanza di posizioni trionfalistiche e letture catastrofico drammatizzanti. In realtà, il contrasto al fenomeno estorsivo degli ultimi diciotto anni a Palermo, a parte i casi significativi ma circoscritti di storie di ribellione collettiva (registrate nelle cinque operazioni Addiopizzo nel 2008 sul mandamento San Lorenzo; nell’area industriale di Carini nel 2009; nell’operazione Apocalisse del 2014 sul mandamento di Resuttana; in via Maqueda nell’ambito dell’operazione che ha visto le denunce dei commercianti Bengalesi nel 2016; e per ultimo nell’operazione Resilienza a Borgo Vecchio nel 2020), ci dice che il trend di collaborazioni e denunce è rimasto più o meno costante senza registrare diminuzioni o incrementi esponenziali.

In generale, le evidenze giudiziarie degli ultimi due decenni rilevano che a Palermo si sono registrate e continuano a registrarsi singole, anche se importanti, storie di denuncia di commercianti e imprenditori che oggi ammontano a diverse centinaia e che dimostrano come rispetto ai tempi bui in cui fu assassinato Libero Grassi, esista la possibilità di denunciare, malgrado in talune situazioni la burocrazia del Comitato di solidarietà delle vittime di mafia del Ministero dell’Interno non dia risposte certe e rapide come meriterebbero le vittime.

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