Il fenomeno estorsivo è cambiato e molti di coloro che pagano sono conniventi con cosa nostra.
A trentuno anni dall’omicidio di Libero Grassi si può affermare che a Palermo si è creata la possibilità di denunciare le estorsioni, in particolare grazie a forze dell’ordine e magistratura. I processi degli ultimi due decenni raccontano infatti che a Palermo sono maturate centinaia di denunce di commercianti e imprenditori che si sono opposti a cosa nostra. Tuttavia, a fronte di un fenomeno non più capillarmente diffuso, va ribadito come c’è ancora chi paga e non denuncia.
Su questa tendenza va ridefinita l’analisi e aggiornata la narrazione, approfondendo le condotte di chi corrisponde le estorsioni e si ostina persino a negarne l’evidenza.
Oggi a differenza del passato il tema che investe la maggior parte di coloro che pagano non è più quello della paura né tanto meno della solitudine, ma quello della connivenza. Emergono a più riprese dai processi relazioni di grave contiguità tra chi paga senza remore le estorsioni e cosa nostra.
Si tratta di commercianti e imprenditori che in cambio del pizzo pagato chiedono servizi alla criminalità organizzata: c’è chi paga e non denuncia perché si rivolge al suo estorsore per impedire l’apertura di concorrenti nel proprio quartiere oppure per recuperare crediti presso i propri clienti, dirimere vertenze con i dipendenti e risolvere problemi di vicinato. C’è chi paga e non denuncia perché appartiene a cosa nostra o perché il pizzo lo corrisponde al proprio cugino o genero, che è l’estorsore del rione.
Dinanzi a tali casi è illusorio aspettarsi collaborazioni proprio per gli interessi e le relazioni tra chi paga e cosa nostra. Da qui l’esigenza di ridefinire l’analisi perché le estorsioni e soprattutto chi paga non hanno più, a Palermo, le caratteristiche di vent’anni fa. Per tale ragione molti di coloro che sono acquiescenti alle estorsioni non possono considerarsi vittime.
Negli ultimi due decenni il contrasto a tale fenomeno a Palermo è stato contrassegnato da un trend di denunce e collaborazioni più o meno costante, senza diminuzioni o incrementi esponenziali.
Da un lato singole denunce, dall’altro significative anche se isolate ribellioni collettive registrate nelle cinque operazioni Addiopizzo nel 2008 sul mandamento San Lorenzo; nell’area industriale di Carini nel 2009; nell’operazione Apocalisse del 2014 sul mandamento di Resuttana; in via Maqueda nell’operazione nata con le denunce dei commercianti bengalesi nel 2016; e per ultimo nell’operazione Resilienza a Borgo Vecchio nel 2020.
Oggi però, se si vuole segnare una svolta, occorre ripartire da due imprescindibili direttrici. In primo luogo, la riformulazione dell’analisi sul fenomeno delle estorsioni per giungere all’adozione di nuovi strumenti amministrativi, utili a rendere sconvenienti le relazioni di connivenza che lesionano il mercato e sterilizzano la libera concorrenza a danno di imprese e consumatori.
La seconda, specie in un momento in cui si registra un calo di interesse sui temi della lotta alle mafie nell’agenda elettorale dei partiti, riguarda chi si candida a rappresentare i cittadini che non può ignorare il tema della “qualità del consenso”. Fu proprio Libero Grassi nell’aprile del 1991 a rilanciare tale questione sostenendo la necessità di mettere al bando “le cattive raccolte di voti”.
Del resto non si può chiedere a commercianti e imprenditori di denunciare le estorsioni se da chi governa e amministra non proviene il buon esempio.