L’alba del 29 giugno 2004, Palermo si risvegliò tappezzata di centinaia di adesivi con il messaggio: “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Una frase con cui non si fece altro che affermare una verità che tutti sapevano ma che nessuno voleva ammettere.
A Palermo, infatti, il fenomeno delle estorsioni avvinghiava il tessuto economico in maniera capillare e le denunce si contavano sulle dita di una mano. Un contesto indifferente, immerso nelle sabbie mobili delle estorsioni e nella palude dell’omertà.
Quattordici anni fa la nostra pratica era un piccolo e fragile segno di implicita resistenza al cospetto di un mondo in cui i termini “mafia” ed “estorsioni” rappresentavano un tabù.
Tra tante insidie, in questi anni abbiamo accompagnato a denunciare commercianti e imprenditori che si sono liberati dagli estorsori. Tanto è cambiato rispetto agli anni bui in cui fu assassinato Libero Grassi.
Oggi la scelta di piegarsi alle estorsioni rappresenta un disvalore sociale, mentre in passato le vittime che soggiacevano venivano giustificate in ragione di uno stato di necessità che non prospettava altre possibilità. Siamo tuttavia consapevoli che la strada sia lunga, paludosa e irta di ostacoli. Infatti, la scelta di denunciare rimane ancora relegata a una minoranza, a fronte di un fenomeno ancora diffuso. La denuncia non è ancora una prassi di comportamento comune; in molti continuano a pagare e la maggior parte dei commercianti e imprenditori collabora solo dopo essere stata convocata da magistrati e forze dell’ordine.
In questo scenario c’è anche chi denuncia il racket dell’estorsione e tende ad ascrivere alla vicenda estorsiva subita le difficoltà economiche e imprenditoriali, che in realtà spesso sono legate alla grave crisi economica. Anche per queste ragioni la strada da fare è ancora lunga. E nonostante alcune significative crepe, il muro dell’omertà è ancora in piedi a Palermo, in altre aree della Sicilia e dell’Italia.
Non è più la stagione nata dopo le stragi, che diede vita a una grande mobilitazione di cittadini che scesero per strada per manifestare tutta la loro indignazione. Ma non è nemmeno più il tempo delle grandi prese di posizione, dei proclami, dei protocolli e delle solidarietà del “giorno dopo”.
Se oggi in tanti, spesso soprattutto a parole, ripugnano la mafia, le mafie, ciò di cui c’è più bisogno è l’impegno di ogni giorno, rifuggendo da rappresentazioni eroico-mediatiche che allontanano i cittadini da una battaglia che per essere vinta ha bisogno di normalità e gente comune.
Per molti versi Palermo è cambiata e in meglio, ma viviamo un contesto dove diritti essenziali, come quelli alla casa e al lavoro, sono ancora molto limitati e in cui le sacche di degrado sociale e di povertà educativa ed economica rimangono diffuse. Un contesto dove tutto ciò alimenta il mal costume, l’illegalità e Cosa nostra, con i suoi codici culturali e i suoi interessi.
Un contesto dove continuare a sostenere commercianti che si oppongono a Cosa nostra non è più sufficiente se non si agisce sul territorio. Per questa ragione, da qualche anno siamo impegnati con ragazzi e famiglie che vivono situazioni di disagio economico e sociale in quartieri come la Kalsa, per provare insieme a superare questo stato di cose.
Per tutto questo, oggi come quattordici anni fa, proseguiamo il nostro impegno quotidiano, per strada e nei quartieri di Palermo: proprio questa notte siamo stati all’Arenella. Ma la novità è che il nostro impegno comincia anche a Latina, dove le recenti notizie di cronaca consegnano uno spaccato altrettanto difficile, in quanto permeato da estorsioni e organizzazioni criminali trapiantate ed endogene.
E a Latina, come a Palermo quattordici anni fa, abbiamo iniziato stanotte tappezzando alcune delle aree più colpite dal racket con adesivi, affinché si squarci il muro della paura e dell’omertà: “Uniti contro il pizzo a Latina“.
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