CHI SIAMO

Gli  ATTACCHINI

Un nostro lungo articolo, scritto per il numero 261 (26 gennaio 2006) della rivista Segno diretta da Nino Fasullo, contiene la ricostruzione più dettagliata della prima parte della nostra campagna, quella contraddistinta dall’anonimato (termine, secondo noi, improprio).

Il titolo proposto era:

Una comunicazione contro la mafia: gli adesivi antiracket. Molto più semplicemente è diventato: Attacchini contro la mafia.

Segno n. 261

Il mattino del 29 giugno 2004, su centinaia di piccoli adesivi listati a lutto attaccati dappertutto per le strade del centro, Palermo ha letto per la prima volta questo messaggio:

UN INTERO POPOLO CHE PAGA IL PIZZO È UN POPOLO SENZA DIGNITÀ.

Il giorno dopo tutti i telegiornali regionali aprivano con questa notizia, in Procura i Pm che si occupano delle indagini sul racket si riunivano con i carabinieri per cercare di capire chi fosse l’autore dell’adesivo, e il prefetto di Palermo Giosué Marino convocava in prefettura il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. C’erano il procuratore generale, il comandante provinciale dei carabinieri, quello della guardia di finanza, il questore e i rappresentanti di Confcommercio, Assindustria e Confesercenti.

Durante la conferenza stampa che seguì, un rappresentante di Confcommercio dichiarò che avrebbero fatto istituire subito un nuovo numero verde per raccogliere le denunce anonime (la Confesercenti ne aveva disattivato uno poche settimane prima perché non chiamava mai nessuno; quello nuovo non avrebbe avuto migliore fortuna) e la Camera di Commercio fece sapere che avrebbe fatto nascere un comitato di monitoraggio del fenomeno e di sostegno a commercianti e imprenditori.
L’adesivo non era firmato e tutti pensarono all’iniziativa di qualche commerciante. Ma si trattava del clamoroso gesto di sette cittadini poco meno che trentenni.

Noi, gli ideatori dell’iniziativa, spiegammo le nostre motivazioni con un’intervista al Giornale di Sicilia e con una lettera aperta alla città, pubblicata integralmente dall’edizione cittadina di La Repubblica del primo luglio. Per fare un breve e parziale punto della campagna che, tra alti e bassi, continua coinvolgendo numerose decine di cittadini, non possiamo non riproporre la nostra lettera:

Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità.
Attaccando dei semplici adesivi speriamo di affermare tra le strade della città una verità che pensiamo debba essere di dominio pubblico. La nostra pratica è un piccolo e fragile segno di implicita resistenza.
Si è detto che la mafia, militarmente e non solo, stava per essere sconfitta dallo Stato. Qualche altra volta ci siamo sentiti dire che con i mafiosi in qualche maniera ci dobbiamo convivere, che entro certi limiti la malavita organizzata è una cosa fisiologica. Oggi invece si parla sempre meno di mafia, usura e racket, termini che rischiano di cadere in disuso. Ma la verità noi siciliani la sappiamo bene: ogni esercizio commerciale che fa un buon fatturato, se non è “amico degli amici”, deve pagare il pizzo. Tutti, nessuno escluso. Poco magari, ma tutti versano denaro “per essere protetti”. Tutto ciò è saputo da tutti i siciliani. E quotidianamente dimenticato.
Quando giornalmente facciamo la spesa pensiamo forse che comprandoci semplicemente di che vivere abbiamo appena lasciato denaro anche alla mafia? Certo che no, eppure è così. Se i panifici, i negozi d’abbigliamento, i tabacchi, i bar, le carnezzerie, i negozi di forniture per uffici, le pescherie, le librerie, le gelaterie, i cinema, i fiorai, i negozi di giocattoli, le onoranze funebri e chi più ne ha più ne metta, sono costretti a pagare il pizzo, lo fanno con i soldi che tutti quanti spendiamo in questi esercizi commerciali. Se una percentuale del loro guadagno va alla mafia, una percentuale, seppur minima, dei nostri soldi va alla mafia. I commercianti pagano per non aver bruciato il locale, o perché soggetti a continui atti di intimidazione. Tutti gli altri pagano, paghiamo per “aver protetta” l’integrità della nostra coscienza dalla consapevolezza che siamo schiavi di un sistema capillare di violenta prevaricazione. Paghiamo per dimenticare che l’insieme di tutti i passi che percorriamo quotidianamente per fare la spesa definisce le maglie della rete economica con la quale la mafia si sostenta e ci opprime.
Perché accade tutto ciò? Ci sono molteplici spiegazioni, storiche, sociologiche, psicologiche, economiche e politiche. Ma quasi tutte presuppongono un punto di vista esterno, neutro e oggettivo che non tira mai in ballo il soggetto che cerca di definire il fenomeno mafia. Se un siciliano vuole dare un giudizio sulla mafia, in una maniera o nell’altra, dovrebbe darlo anche su sé stesso, sulla sua maniera di stare insieme agli altri. La mafia è innanzitutto una questione che riguarda i siciliani, e da siciliani, cioè da membri di quella comunità che crea e subisce la mafia, allora pensiamo: il nostro popolo ha creato e si è sottomesso alla mafia. È perverso: si è fatto schiavo di sé stesso. Ma forse in realtà non ci si sente un popolo, cioè veri siciliani, o più probabilmente, non si ha la forza e il coraggio di esserlo. Ognuno pensa per sé e nella migliore delle ipotesi ci aspettiamo che lo Stato arresti tutti i boss, come se non fossimo a conoscenza del retroterra di degrado culturale e sociale nel quale vengono incubati i mafiosi che verranno. Perché tutti quanti, più o meno indirettamente, paghiamo il pizzo? Ci abbiamo pensato su un po’ e abbiamo detto: siamo un popolo senza dignità. Da questa strana risposta abbiamo capito che ci sentiamo parte di una moltitudine che subisce molto e capisce poco. Dalla semplicità di questa risposta, che in realtà è una semplice affermazione di principio, c’è venuta l’idea di attaccare gli adesivi. Vorremmo proporre questo principio per spiegare in maniera diversa il fenomeno mafia, ma prima vogliamo sapere che cosa ne pensano gli altri siciliani. Essendo dei “signor nessuno” ci siamo presi lo spazio che ci serviva per esprimere il nostro pensiero. Abbiamo conservato l’anonimato perché non intendiamo capitalizzare alcun consenso per diventare “qualcuno”, ma soprattutto perché speriamo che siano in tanti a fare la stessa cosa. Per noi non conta che sia un politico, Tizio o Caio, a fare questa affermazione di principio, ma una moltitudine di siciliani. La responsabilità della situazione degenerativa in cui tutti noi viviamo, non è solo dei commercianti, ma di tutta la società di cui anch’essi fanno parte. Non si può chiedere a un singolo cittadino, o commerciante, di immolarsi per la causa. Se tutti noi ci ribellassimo e reagissimo, non ci sarebbe più bisogno di eroi o martiri. Ricordate dopo le stragi del ’92 la frase che divenne, in quel frangente storico, il simbolo della lotta alla mafia? Diceva le vostre idee cammineranno sulle nostre gambe. In quei mesi sembrò che qualcosa potesse cambiare, ma se ci fossimo riusciti veramente non saremmo oggi in questa situazione di sudditanza al fenomeno mafioso. Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità: quando questo principio sarà nella testa e nel cuore di tutti i siciliani, riscoprendo l’amor proprio, ci saremo liberati del cancro mafioso.
Questa, almeno, è la nostra convinzione. Siamo uomini e donne abbastanza normali, cioè ribelli, differenti, scomodi, sognatori.
La parola al popolo siciliano.”

Con questa comunicazione, figlia di discussioni, passione, scarsezza di mezzi e ingegno, abbiamo creato uno spazio per un dibattito pubblico. In televisione, alla radio, nei giornali, tra le strade, nei luoghi di lavoro, a scuola e nelle case, la città è stata costretta a infrangere uno dei suoi tabù: parlare di pizzo.
Tutti gli esperti di comunicazione che si sono occupati inizialmente del fenomeno hanno giudicato un’ingenuità il fatto di aver subito rilevato la nostra identità: neolaureati e lavoratori alle prime armi.

 


Effettivamente se avessimo aspettato una settimana, l’anonimato del gesto avrebbe tenuto la tensione e l’attenzione alte per un periodo più prolungato. Ma avrebbe anche alimentato un’illusione, cioè che qualche commerciante cominciasse a dare segni, se non altro, di insofferenza. Il semiologo Marrone ha sostenuto che: “Dichiarando quasi subito chi erano hanno fatto un errore banale e hanno ucciso il loro mito”.
Effettivamente abbiamo privato il senzazionalismo dei media di un “mito”, ma facendo così abbiamo permesso immediatamente ai nostri coetanei di potersi identificare con gli autori del gesto (e quindi di emularli), e soprattutto abbiamo subito tirato in ballo un soggetto mai tenuto in considerazione quando si parla di pizzo: il consumatore. Gli “attacchini” (fra di noi ci chiamiamo così), rispetto al problema del pizzo non sono altro che consumatori. Questa è una delle principali e più importanti novità di questo fenomeno.

Un sociologo della comunicazione di massa, il professore Abruzzese ha colto nel nostro gesto il rischio dell’approssimazione perché: “ci sono quelli che pagano il pizzo, ma c’è altrettanta gente che non lo paga”.

Estremizzando questo ragionamento, un esperto di comunicazione molto presente in tv, Kaus Davi, ha sostenuto che la nostra generalizzazione “manda avanti un pregiudizio degno dei nazisti”.

Ma a parte questo ultimo ridicolo fraintendimento, se i dati ufficiali dicono che a Palermo otto commercianti su dieci pagano, chi è che non paga? E se è vero, come è vero, che la mafia rappresenta una netta minoranza della società siciliana, perché lasciamo che accada tutto ciò? Perché?
Il nostro anonimato era, ed è, finalizzato alla diffusione della pratica. La riproducibilità del gesto è insita all’idea stessa, e i fatti ci hanno dato, almeno parzialmente, ragione: pochi giorni dopo gli stessi adesivi comparvero a Vibo Valenzia. Dal quel giorno la pratica continua a diffondersi lentamente tramite il passaparola, il web e l’emulazione, e ha coinvolto un numero di cittadini tale che sarebbe forse più corretto parlare di una campagna senza firma, senza copyright, aperta a tutti i cittadini che a titolo individuale vogliano farne parte. Di fronte a questo fenomeno più che sul chi, ci si dovrebbe interrogare sul cosa: una pratica collettiva che coinvolge diverse decine di cittadini/consumatori, organizzati in piccoli gruppi. Gli attacchini che (bene o male) si conoscono reciprocamente, a tutt’oggi, sono più di cinquanta, ma sappiamo per certo che a Palermo ci sono altri gruppi attivi che non conosciamo, come non conosciamo i ragazzi di Alcamo che a settembre hanno attaccato nella loro città gli stessi adesivi (mentre attraverso il passaparola gli adesivi sono arrivati a Bagheria, Casteldaccia e Capaci).

 

Sull’edizione palermitana di La Repubblica del cinque settembre Nino Alongi pur trovando lodevole l’iniziativa degli adesivi si domandava: “Che si sia inabissata oltre la mafia anche l’antimafia?”. E’ una domanda legittima e pertinente, ma sarebbe forse più produttivo domandarsi: sta forse emergendo una nuova forma di antimafia? Forse, ma comunque è ancora troppo presto per dirlo.

Noi per il momento possiamo solo raccontare che già a fine luglio tra amici, conoscenti e gente dalla quale avevamo deciso di lasciarci trovare eravamo diventati una trentina, e infatti si fecero un altro paio di uscite. Del resto avevamo ancora la gran parte dei 5000 adesivi che avevamo fatto stampare, e molta delle persone che andavamo conoscendo avevano a loro volta degli amici da coinvolgere, fin quando non si trovò un posto abbastanza grande per far incontrare e far discutere una quarantina di persone. Ci si vide due volte, si ragionò a fondo e si decise di fare degli striscioni che poi quattro squadre da cinque misero su alcuni dei ponti lungo la circonvallazione della città, mentre gli altri attaccavano ancora una volta gli adesivi. Tutto ciò per l’anniversario dell’uccisione di Libero Grassi, infatti sugli striscioni c’erano frasi come questa: Un intero popolo che si ribella al pizzo è un popolo Libero.
Quella notte, inoltre, mettemmo on line il sito www.addiopizzo.altervista.org che tra le altre cose contiene la seguente lettera:

“Le azioni portate a termine la notte tra il 28 e il 29 agosto sono state discusse, concepite ed eseguite da alcune decine di individui che si riconoscono nell’affermazione “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, e che condividono la pratica di attaccare tra le strade della Sicilia gli adesivi che riportano questa frase.
Per un anno cercheremo di far diffondere il più possibile questa pratica, mettendo l’adesivo a disposizione di tutti insieme ad altri materiali e informazioni.
Durante quest’anno immaginiamo una gran moltitudine di uomini e donne che, grazie anche alle nostre azioni e a questo sito, potranno riflettere e informarsi sul racket mafioso. E quindi decidere se scaricare, stampare e attaccare a loro volta l’adesivo.
Apparteniamo a due differenti generazioni, ma siamo principalmente studenti, giovani in cerca di una prima occupazione e lavoratori alle prime armi.
Siamo mossi da idealità, entusiasmo, rabbia e amor proprio. E dalla preoccupazione per le difficoltà che ci creerà la mafia quando entreremo (si spera!) nei luoghi produttivi e decisionali della Sicilia.
Ricerchiamo nuove forme di lotta per liberare le nostre menti e tutto il territorio siciliano da ogni forma di dominio mafioso.
Come risulta chiaro dagli studi del Centro Impastato, quando si parla di Cosa Nostra si può senz’altro parlare di “signoria territoriale” come connotazione istituzionale, assolutamente fondamentale per definire il fenomeno mafioso, che risulta dal convergere dei seguenti elementi:

1. un sistema di violenza e di illegalità
2. l’accumulazione del capitale
3. l’acquisizione e la gestione di potere politico
4. un codice culturale e un relativo consenso sociale

Le nostre azioni hanno a che fare con il punto 4, con la speranza che le istituzioni, le forze dell’ordine e i politici onesti rilancino con nuovo vigore la lotta ai primi tre punti.
Il nostro obiettivo è erodere il consenso di cui gode la mafia nell’estesa “zona grigia” della nostra società.
Per l’esattezza, il nostro obiettivo critico è il beneplacito della popolazione di cui si avvantaggia il connivente della Cosa nostra degli assassini.
Le nostre azioni vogliono porre un argine al silenzio, sono atti di ribellione alla sottocultura mafiosa e una forma di dissociazione attiva dall’indegno quietismo che si è consolidato soprattutto attorno al problema delle estorsioni mafiose.
Abbiamo quindi scelto l’anniversario del vile assassinio di Libero Grassi, l’imprenditore che pagò con la vita la sua ribellione al racket, per provare a lanciare in tutta l’Isola una “guerriglia comunicativa a bassa intensità” contro il pizzo, una campagna della durata di un anno.
Per sconfiggere la mafia, la lotta al racket ha un ruolo strategico. Attraverso il pizzo, infatti, la mafia controlla in maniera capillare tutto il territorio. Ecco alcuni eloquenti dati:
• Per la Procura di Palermo, l’80% dei commercianti di Palermo paga il pizzo. E la media regionale si attesta sul 70%.
• Secondo i dati di Confesercenti, in Sicilia le vittime dei ricatti mafiosi sono circa 50mila (160mila in tutt’Italia).
• L’Eurispes calcola che dal pizzo la mafia guadagni circa 10 miliardi di euro l’anno (6 dei quali con il racket delle campagne: restituzione di attrezzature e macchinari rubati nei campi, gestione illegale delle risorse idriche).
Soltanto questi dati dovrebbero fare capire che il pizzo non è solo un problema degl’esercenti e degli industriali.
Noi parliamo di intero popolo per non colpevolizzare a priori nessuna categoria e per richiamare l’attenzione sulle responsabilità collettive di tutti quanti.
Il pizzo rappresenta solo il 16% dei guadagni illegali della mafia, ma la gravità del fenomeno va al di là delle cifre.
Pretendendo il pizzo, la mafia di fatto afferma la sua signoria sul territorio, è come se chiedesse una tassa, perché ritiene il territorio cosa sua, si considera padrona di esso e quindi chiede del denaro per “concedere” il diritto al lavoro.
Il pizzo non è soltanto un danno all’economia dell’intera regione, è il simbolo della negazione della sovranità del popolo siciliano.
A fronte di tutto ciò, con i nostri adesivi e le altre azioni analoghe cerchiamo di dare alla realtà il suo nome, la descriviamo e lasciamo agli interpellati il compito di decidere. Anche sull’opportunità di aderire, in quanto semplici cittadini, alla campagna che intraprendiamo e lanciamo.
Per un anno cercheremo di far diffondere il più possibile la pratica di attaccare tra le strade della città l’adesivo che mettiamo a disposizione di tutti in questo sito, insieme ad altri materiali e informazioni.
La rete che speriamo si verrà a configurare sarà senza vertici, e senza un centro ben definito e stabile.
Attaccare questi adesivi per una anno, quando e dove ogni singolo gruppo o individuo crede e ritiene opportuno, sarà una maniera per scuotere le coscienze e alimentare il confronto critico.
Tutto ciò è il contributo che intendiamo dare a un nuovo corso che speriamo si avvii presto: un processo di autoeducazione popolare finalizzato alla liberazione delle menti e del territorio dalla mafia.

E il sito è uno dei principali strumenti che i promotori della campagna hanno messo a disposizione di questo processo, infatti contiene anche i recapiti di tutte le associazioni antiracket siciliane, il numero verde del Ministero dell’interno, un file scaricabile che contiene il testo della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), un po’ di documentazione utile per conoscere meglio il fenomeno e una ricca (sebbene incompleta) rassegna stampa.

Prima di concludere, una menzione meriterebbe anche un altro messaggio meno fortunato. Durante la festa della patrona di Palermo attaccammo vicino a molte chiese e lungo una parte del percorso della processione un adesivo con su scritto: “Santa Rosalia liberaci dal pizzo!”.

Questa azione, come era prevedibile, non ha avuto la stessa fortuna mediatica della prima, ma non essendoci mai sopravalutati, non ce ne siamo fatti un particolare cruccio. Anche se questo messaggio non ha funzionato, prima o poi si dovrà discutere ampiamente anche di questo: malgrado molti sacerdoti conducano da anni una lotta individuale contro la mafia, e che i teologi parlino di Cosa nostra come una struttura di peccato, non esiste ancora una Pastorale specifica contro la mafia. Questo fatto è avvertito come una mancanza anche da quei laici che nella lotta alla mafia hanno trovato un importante punto di riferimento anche nei sacerdoti.

Comunque, per concludere: gli attacchini in realtà sono pur sempre un numero insignificante, ma hanno un larghissimo consenso e spingono un gran numero di cittadini a riflettere e a discutere.

Non pensiamo certo che ci si possa attendere di più da una pratica del genere. Che tutto ciò sia comunque importante e significativo ci è stato confermato anche dalle tante e-mail ricevute, tra le quali la seguente è una di quelle che ci ha incoraggiato maggiormente:
“Non ho ben capito chi siete, ma ammetto che la cosa non riveste, a mio modo di vedere, determinante importanza. Preferisco immaginarvi come uomini e donne pervasi da elevato spirito civico, spinti da una molla che tutti i siciliani onesti possiedono ma che raramente scatta: quella di urlare ad un popolo intero di riappropriarsi di una dignità che gli spetta di diritto, di gettare le basi per un’unione dalla quale possa scaturire una forza travolgente.
In altre parole qui la sostanza prepondera largamente sull’apparenza. Poco importa se avete i baffi o no, se portate gli occhiali o meno, se siete biondi o bruni… Mi basta l’intento, il messaggio lanciato, il richiamo alla coscienza. È per questo che vi mostro la mia solidarietà, che dico che un esempio come il vostro è certamente degno di apprezzamento, che merita continuità. Io non sono direttamente interessato al problema del pizzo; non possiedo un’attività commerciale né lavoro per una di esse. Però mi sono fermato a riflettere pensando che quando pago il conto della spesa finanzio in una certa misura le casse delle organizzazioni estorsive. Saluti.”

È necessario riflettere sulla responsabilità collettiva della società siciliana di fronte a fenomeni largamente diffusi come quello del racket. Infatti, non si può pretendere che gli imprenditori denuncino i loro estorsori se l’ambiente socioculturale in ci vivono è indifferente al problema. Certo è che, se la società civile e la cittadinanza tutta assumessero un comportamento attivo di lotta e contrasto alla signoria di Cosa nostra, l’imprenditore reticente o compiacente avrebbe meno scusanti.
Noi riteniamo quanto è nato dalla nostra iniziativa una delle espressioni di quella intelligenza e passione collettiva che – a fatica – si risveglia e si riorganizza, ci sentiamo parte di una storia popolare che lentamente si sta scrivendo dal basso, siamo parte di quella moltitudine di siciliani senza nome che in un precario equilibrio tra entusiasmo e disincanto in cuor loro sognano comunque una terra endemicamente ribelle ad ogni forma di sopruso, giusta, laboriosa e creativa.